Terni 2003: Storia di un femminicidio, fotocopia di altri femminicidi
<< Adesso chi porterà a spasso il cane?>> Ha appena ucciso la moglie, si è fatto prendere dai carabinieri e adeso pare abbia soltanto questo tarlo in cima ai suoi problemi. Neanche dieci minuti prima, arriva al bar con gli occhi pieni di lacrime e lo sguardo fisso nel vuoto. Entra, parla a fatica per il freddo, vestito com’è con un pigiama leggero e le ciabatte ai piedi. La pistola la tiene in una tasca, la prende in mano, ma solo per posarla sul bancone. Afferra il telefono e chiama i colleghi:” venite a prendermi che ho appena ucciso mia moglie”. Poi chiude, non ha altro da aggiungere. Si mette in disparte e aspetta. È da poco passata la mezzanotte del 9 febbraio 2003, quando Nicola, 44 anni, sottufficiale dei carabinieri in servizio a Terni, si consegna dopo aver sparato per due volte contro Paola , la donna che ha sposato da oltre 20 anni. I figli, 18 e 22 anni, svegliati dai colpi, tentano di salvare la mamma, ma non c’è niente da fare, Lidia muore. Nicola esce così com’è, senza vestirsi, e raggiunge un locale di via Di Vittorio. Stralunato si muove come un automa. Mormora poche parole incomprensibili, mette sul bancone la pistola, si siede ad un tavolino e con il cellulare contatta la caserma dove lavora. È un brigadiere del Nucleo Informativo, molta burocrazia, la routine delle carte da catalogare, poca azione : un posto tranquillo. Eppure, il militare è spesso di pessimo umore, negli ultimi mesi si è incupito e chiuso in sé stesso ancor di più. È diventato taciturno e scontroso come se un solo pensiero avesse preso il sopravvento su tutti gli altri e lo tormentasse così tanto da peggiorarne il carattere di uomo tranquillo. Il tarlo che lo corrode lo scoprono le indagini: è geloso , e non ne ha ragione, della moglie. Eccolo il movente. Tra i due coniugi da tempo le cose non vanno più bene: la donna subisce una sorta di. Lui insiste, domanda, minaccia. Lei si difende come può e i litigi sono sempre più frequenti. Lo sanno bene i vicini del palazzo di via San Valentino , che non ne tengono più il conto. Li sentiamo, certo che li sentiamo, ma non sono fatti nostri, non ci intromettiamo, raccontano ai giornalisti che vogliono sapere di eventuali segnali premonitori. Certo che ce ne sono stati, ma nessuno è intervenuto. La gelosia provoca guasti dentro un rapporto di coppia che si sta guastando. Guasti su guasti, Riparazioni su riparazioni e poi di nuovo guasti. Dunque, in via San Valentino e a quattro giorni dalla grande festa di Valentino, il santo degli innamorati, la basilica a lui dedicata è a un passo, l’ultimo capitolo della storia di un amore malato è un femminicidio. Poco dopo mezzanotte , forse all’una del 10 febbraio, l’ennesima sfuriata. Ci sono le parole urlate, la voglia di far male, la ricerca di una vendetta che non ha di che vendicarsi, una pistola a portata di mano. Lei scappa, lui la insegue per casa. Lei cerca di mettersi in salvo chiudendosi nel bagno. Corre, ma la sua corsa viene fermata da due pallottole che non le lasciano scampo. Gli spari svegliano i figli. I figli accorrono, la donna sta morendo, il padre esce di casa. Poco dopo arriva la polizia perché i coinquilini hanno dato l’allarme e la polizia si trova davanti due ragazzi che piangono sul corpo della mamma che è morta nel tempo breve che è servito alla “Volante “ di arrivare a quel civico della via intitolata al patrono della città. Al bar di via di Vittorio, invece, sono arrivati i carabinieri che portano via un collega che ha appena commesso un omicidio, ma è soltanto capace di interrogarsi sul futuro delle passeggiate del suo cane.. Il giorno dopo il primo interrogatorio nel carcere di Vocabolo Sabbione. Secondo indiscrezioni l’omicida avrebbe parlato di un raptus che neanche lui sa spiegarsi. Il raptus, nei casi di femminicidio in generale sono spesso mosse difensive che determinano il corso dei processi. In questo caso viene disposta una perizia psichiatrica e la difesa opta per il rito abbreviato. Il parere medico legale attenua la pena prevista per un omicidio volontario. La condanna del brigadiere è a nove anni e sei mesi di carcere. La Corte d’ Appello di Perugia conferma la sentenza di primo grado.
(da Il Messaggero)