La mafia albanese in Umbria alla fine degli anni’90: cinque morti e dieci feriti per il controllo di Perugia
A Perugia la faida degli albanesi che hanno saltato il fosso della legalità fa 5 morti e una decina di feriti in nemmeno 24 mesi La faida per il controllo degli affari sporchi in determinate aree della regione comincia sul finire del 1997 e nel 1999 le pistole smettono di sparare e di uccidere con tanta sconosciuta frequenza. Segno di un rapido cambiamento di strategia criminale : un qualche tipo di pace raggiunto , un assetto di poteri condiviso, confini da non difendere più con le armi in pugno. Del resto quello è stato un biennio svolta. Arricchita dai profitti del traffico degli esseri umani e dello sfruttamento della prostituzione, adesso la malavita arrivata con gli esodi dalle guerre della ex Jugoslavia marcia verso il controllo del mercato della cocaina. Ha capitali da investire che i soldi aprono la strada a patti, poco prima impensabili , con le mafie italiane e lasciando a quelle nigeriane il business più rischioso dell’eroina e del fumo in generale. I clan albanesi non sono strutturati e agiscono a piccoli gruppi da forti legami di parentela o di comune provenienza geografica. Il controllo dei canali attraverso i quali passano le risorse per il controllo del territorio, li fa spesso entrare in conflitto. Per questo sparano: piombo per eliminare la concorrenza. Alla scuola della ‘ndrangheta e della camorra però imparano presto i metodi sottotraccia per attenuare i rischi non facendo rumore e cercando l’invisibilità.
In altre parole: meno confliti interni e meno regolamenti di conti a colpi di pistola. L’aria nel 1997, invece, sapeva di polvere da sparo. Come la notte del 21 ottobre. In un bar di via del Macello, la stazione ferroviaria di Fontivegge è a un passo, c’è un gruppo di avventori di diverse nazionalità. Ci sono anche quattro o cinque albanesi. Sono tutti molto giovani, appena ventenni, vengono da Tirana. Da un’auto scendono quattro soggetti mascherati. Ognuno di loro impugna una pistola. Ognuno di loro vuota il caricatore. Due ragazzi muoiono, due sono feriti. E’ un avvertimento, come nelle faide tra le cosche di Palermo o di Reggio Calabria. Passano un anno e qualche mese ed ecco un’altra esecuzione. Qualcuno suona alla porta di un piccolo appartamento di Olmo. Qualcuno apre e si trova davanti due canne di rivoltella. Gli ospiti inattesi entrano e fanno fuoco: la vittima è un ventenne che ferito in più parti del corpo muore sull ’ambulanza. Colpita, ma non in maniera grave, anche una delle due ragazze che erano con lui. Recluse in quella casa per prostituirsi di notte. E’ il 25 marzo 1999.Il giorno dopo, poco lontano, a Ellera di Corciano, di nuovo spari per strada: due giovani, un uomo e un a donna, fuggiti dall Albania, se la vedono brutta, ma sopravvivono. Il 24 ottobre 1999 un nuovo agguato e di nuovo tanti colpi di calibro 9: sull’asfalto un ventiduenne che per una qualche ragione criminale non aveva alternative: doveva essere eliminato. Controllava il lavoro di due giovanissime costrette a vendersi per strada e che evidentemente, secondo i killer, dovevano cambiare padrone senza pagare il passaggio di proprietà. Il 13 novembre dello stesso anno la scena del crimine è di nuovo un bar. Questa volta a Ponte San Giovanni. Il locale è affollato. Arrivano tre soggetti, italiani, dice la polizia che li identificherà poco dopo. Due sono armati: una calibro 9 e una calibro 15. La vittima designata ad essere eliminata con 20 proiettili è un quarantenne . Poi anni di cronaca minore. La criminalità organizzata albanese, come quella italiana, è impegnata a riciclare in attività pulite un fiume di denaro sporco. Operazioni di questo tipo di fanno in silenzio. Non serve sparare.
( da Il Messaggero)